Enrica Perucchietti – Blog

Giornalista e scrittrice. Ciò che le TV e i media non ti dicono

Nel cuore di una crisi umanitaria senza precedenti, Israele lancia una controffensiva mediatica che trasforma la tragedia in palcoscenico.

Non più solo bombe e tank: oggi la guerra si combatte con selfie, filtri Instagram e frame accuratamente selezionati. Ed è proprio sui social che si gioca una battaglia invisibile, ma altrettanto letale: quella per plasmare la percezione collettiva, falsificare la realtà e monopolizzare la narrazione dominante.

Il governo israeliano ha permesso a dieci influencer americani e israeliani di entrare brevemente nella Striscia di Gaza nell’ambito di una campagna per “rivelare la verità” sulle condizioni umanitarie dei palestinesi, mentre cresce l’indignazione internazionale per la carestia e i morti. Come raccontato da Haaretz, il tour organizzato dal ministero israeliano per gli Affari della Diaspora è stato un raro caso in cui ai civili è stato permesso di entrare a Gaza. L’iniziativa è stata presentata come una dimostrazione del “meccanismo di distribuzione degli aiuti umanitari a Gaza” per “confutare le menzogne” di Hamas “diffuse dai media stranieri”, si legge in una nota del ministero.

Non è la prima volta. Dopo lo shock globale provocato dalla foto di Muhammad Zakariya Ayyoub al-Matouq, bambino palestinese di un anno e mezzo ridotto a scheletro, il governo israeliano aveva arruolato alcuni influencer e starlette del web accuratamente selezionati per raccontare, a favore di camera, la “verità” ufficiale: non c’è carestia, il cibo c’è, la colpa è dell’ONU. Una narrazione chirurgica, studiata al dettaglio come una campagna marketing, volta a rovesciare la realtà, insinuare il dubbio e neutralizzare la crescente indignazione internazionale.

Nel nuovo paradigma bellico, le guerre non si combattono soltanto con le armi. Il fronte più pericoloso è quello che si insinua nelle menti: la guerra cognitiva, in cui l’arma più potente è la manipolazione dell’opinione pubblica. Israele l’ha capito da tempo e ha strutturato un sistema comunicativo aggressivo, coordinato a livello statale, che sfrutta influencer e opinion maker per rilanciare la narrazione sionista e screditare le testimonianze dal campo o per boicottare le voci divergenti e “pericolose”, come Francesca Albanese, rea di aver curato il dossier ONU che svela “l’economia del genocidio” e stila i nomi delle aziende che fiancheggiano Israele.

Mentre medici e paramedici raccontano l’agonia quotidiana dei bambini palestinesi senza cibo, senza acqua, senza cure e mentre le agenzie umanitarie parlano di fame sistemica e “carestia indotta dall’uomo”, Israele risponde con la retorica dell’efficienza e dell’ordine: gli aiuti ci sono, sono gli altri che falliscono, lasciando intendere che l’ONU spalleggi Hamas. La guerra, dunque, non si gioca solo a Rafah, ma anche su Instagram, X e TikTok. È qui che Israele sta costruendo il suo fronte mediatico, arruolando volti noti per esaltare il “diritto alla difesa” e occultare sistematicamente la realtà delle vittime civili palestinesi.

Si tratta di un’operazione di comunicazione pianificata, una strategia di contro-framing architettata da spin doctor e da esperti di crisi.

Già dopo l’attacco del 7 ottobre, lo Stato israeliano aveva istituito task force digitali per monitorare, manipolare e indirizzare i contenuti online, in modo da raccontare la guerra, “a beneficio della difesa israeliana”. Il Ministro degli Esteri Eli Cohen è stato chiaro: “I social network e l’influenza sull’opinione pubblica internazionale sono fondamentali durante la guerra, al fine di mobilitare il sostegno internazionale”. Cohen ha ringraziato pubblicamente gli influencer “per il loro grande contributo” e li ha definiti “veri patrioti” che “si prendono cura di tutti i cittadini di Israele”. Volti come Noa Tishby (attrice e autrice del libro Israel: A Simple Guide to the Most Misunderstood Country on Earth), Emily Schrader (giornalista con 80 mila follower), Nataly Dadon (modella da 825 mila follower) o Fleur Hassan-Nahoum (già vicesindaca di Gerusalemme e attiva nei rapporti Israele-Emirati) sono solo alcune delle figure chiave nella strategia di “hasbara” – termine ebraico che indica la propaganda ufficiale israeliana.

È un ribaltamento radicale della realtà, tipico delle guerre psicologiche. L’obiettivo non è solo confondere, ma neutralizzare il dissenso, svilire il sentimento umanitario e creare una realtà parallela, dove Israele appare come vittima e salvatore, mentre le organizzazioni internazionali – e le stesse vittime palestinesi – vengono trasformate in complici o bugiardi.

L’uso sistematico degli influencer da parte di Israele per manipolare la narrazione della guerra non è un fenomeno isolato: è parte di una strategia globale per criminalizzare ogni opposizione e legittimare una repressione brutale.

L’informazione è diventata territorio di guerra, il like un’arma politica, l’algoritmo un campo minato. In questo scenario, credere ai video patinati degli influencer schierati da Tel Aviv, mentre Gaza brucia, è come credere ai manifesti pubblicitari durante un bombardamento: una forma di cecità indotta, anestetizzata e pericolosamente complice.

Uscirà il 21 ottobre Nobody’s Girl: A Memoir of Surviving Abuse and Fighting for Justice, il memoir postumo di Virginia Giuffre, la donna che con le sue denunce ha fatto tremare i palazzi del potere e i salotti dell’élite internazionale.
Un libro che – come annuncia l’editore Knopf – rappresenta la testimonianza definitiva della sopravvissuta al giro di traffico sessuale orchestrato dal finanziere Jeffrey Epstein e dalla sua storica complice, Ghislaine Maxwell, condannata per aver reclutato minorenni da offrire all’élite globale. L’editore definisce il libro “un’eccezionale testimonianza della volontà incrollabile di Giuffre: prima per uscire dalla condizione di vittima e poi per far luce sui crimini e promuovere un mondo più sicuro e giusto”.

Era il 2019 quando Giuffrè in un’intervista esclusiva alla BBC raccontò gli abusi perpetrati da Epstein e da Ghislaine Maxwell. Raccontò di essere stata obbligata ad accettare rapporti sessuali con il principe Andrea quando lei non era ancora maggiorenne. Il duca di York l’avrebbe costretta tre volte a rapporti intimi quando ancora era diciassettenne, in un’isola privata dei Caraibi di proprietà di Epstein, a Londra e a New York tra il 1999 e il 2002. Patteggiò con il Principe Andrea un accordo milionario nel 2022. Il duca di York ha sempre negato ogni addebito, ma il danno d’immagine è stato irreparabile.

Il libro maledetto

Nobody’s Girl sembra contenere nuovi dettagli intimi e sconvolgenti sui rapporti con Epstein, Maxwell e i loro “amici potenti”, tra cui il principe Andrea, di cui Giuffre parla per la prima volta dopo l’accordo extragiudiziale. Un’opera che, come scrisse lei stessa in un’e-mail poco prima della morte, rappresentava il suo “sincero desiderio” di vedere la luce “indipendentemente da qualsiasi circostanza”, perché “fondamentale per smascherare le falle sistemiche che permettono il traffico di esseri umani attraverso i confini”.

Il manoscritto era stato completato con l’aiuto della giornalista Amy Wallace. Per la casa editrice è il racconto crudo e scioccante di “uno spirito feroce che lotta per liberarsi”.

Eppure, il libro uscirà dopo la sua morte improvvisa, un “suicidio” che ha fatto tornare alla mente quello altrettanto anomalo di Epstein stesso.

Un altro suicidio sospetto

Virginia Giuffre si è spenta, infatti, lo scorso 25 aprile, a soli 41 anni, nella sua fattoria in Australia Occidentale.
Ufficialmente si è trattato di suicidio, sebbene non siano mancati i dubbi sulla vicenda.

Nel 2019, in un post inquietante, la donna aveva scritto: “In nessun caso io intendo suicidarmi. Se dovesse succedermi qualcosa non lasciate passare la vicenda come se nulla fosse e proteggete la mia famiglia. Troppe persone malvagie vogliono silenziarmi”.

Eppure, i giornali hanno parlato di un peggioramento del suo stato mentale, di incidenti misteriosi nei mesi precedenti, di un matrimonio in crisi. Una spiegazione che non convince chi ricorda il destino di Epstein, “suicidato” in un carcere di massima sicurezza.

Due morti, due “suicidi” che coincidono perfettamente con l’interesse a spegnere voci troppo scomode.

Il sistema Epstein-Maxwell: sesso, potere e ricatti

Il caso Giuffre non è isolato, ma parte integrante di un quadro ben più vasto. Epstein non era solo un finanziere: era uno snodo strategico tra potere, denaro, sesso, ricatti e intelligence.

Per i suoi legami oscuri con CIA e Mossad. Come ben documentato nel libro Robert Maxwell: Israel’s Superspy (2002), il padre di Ghislaine – compagna storica di Epstein – sarebbe stato un agente di alto livello del Mossad. Robert Maxwell, imprenditore ed editore, grande antagonista di Rupert Murdoch, morì il 5 novembre 1991 alle Canarie per un presunto infarto, anche se tre patologi forensi smentirono questa ipotesi.

Secondo un altro saggioDead Men Tell No Tales, a introdurre Epstein nei circoli dell’intelligence israeliana sarebbe stato proprio Maxwell. Da giovane, il finanziere frequentava la casa dell’editore, dove conobbe Ghislaine, con la quale ebbe una lunga relazione.
Secondo l’ex agente del Mossad Ari Ben-Menashe, il miliardario e Ghislaine Maxwell avrebbero fornito minorenni ai potenti di mezzo mondo, ricattandoli poi per conto dei servizi segreti israeliani.

Non a caso, il padre di Ghislaine, Robert Maxwell, era a sua volta indicato come “super-spia” del Mossad. Una tradizione di famiglia, dunque, che lega in modo sinistro la parabola di Epstein ai giochi dell’intelligence internazionale.

I documenti desecretati dal Dipartimento di Giustizia USA hanno confermato i nomi di molti dei personaggi che frequentavano l’entourage di Epstein: politici, attori, magnati, fino all’ex presidente Bill Clinton. Altri documenti rivelano tentativi di ricatto: Bill Gates, ad esempio, sarebbe stato minacciato nel 2017 da Epstein, che avrebbe usato come leva la relazione extraconiugale del miliardario con una giovane russa.

La verità sepolta

Ogni volta che un tassello emerge – un documento desecretato, una testimonianza, un libro come quello di Virginia Giuffre – subito si levano cortine di fumo, depistaggi, morti sospette.
Il “caso Epstein” non è un semplice scandalo sessuale: è lo specchio del sistema di potere globale, dove i corpi delle vittime diventano strumenti di ricatto e di controllo.

Con Nobody’s Girl, Giuffre consegna la sua ultima verità e serve la sua vendetta postuma. Una verità che potrebbe destabilizzare equilibri delicatissimi.
Non sorprende che sia uscita solo dopo la sua morte.

La domanda resta: quante altre voci dovranno essere silenziate prima che questo sistema venga alla luce nella sua interezza?

Sono stati resi pubblici i verbali dell’interrogatorio che Ghislaine Maxwell – l’ex compagna e complice di Jeffrey Epstein, oggi condannata a vent’anni di carcere – ha sostenuto con il viceprocuratore generale Todd Blanche. Le trascrizioni, 337 pagine di dichiarazioni, avrebbero dovuto fare chiarezza su aspetti ancora oscuri del caso Epstein, ma hanno finito per alimentare ulteriori dubbi e polemiche.

Maxwell ha ribadito di non aver mai visto Donald Trump coinvolto in condotte inappropriate, né legato alle attività di Epstein. «Quando ero con lui si è sempre comportato da gentiluomo, non ho mai assistito a nulla di sconveniente», ha detto. Maxwell ha raccontato a Blanche di non sapere come Epstein e Trump si siano conosciuti né come siano diventati amici. “Certo che li ho visti insieme e ricordo le poche volte in cui li ho osservati insieme, ma erano amichevoli”, ha detto. “Voglio dire, sembravano amichevoli.” Maxwell ha affermato di ricordare di aver visto Epstein e Trump solo in contesti sociali, non in quelli privati. Alla domanda di Blanche se avesse mai visto Trump ricevere un massaggio, ha risposto: “Mai”. Parole che sembrano un tentativo di sgombrare il campo da illazioni e che, al contempo, consolidano il ruolo ambiguo di Todd Blanche: ieri avvocato personale di Trump, oggi magistrato incaricato di condurre l’interrogatorio.

Scagionato” anche Bill Clinton che, secondo la testimonianza di Maxwell, «non ha mai ricevuto massaggi» in sua presenza e «non si è mai recato» a Little St James, l’isola privata di Epstein. «Era amico mio, non di Epstein» ha aggiunto. Quanto al principe Andrea, Maxwell nega di averlo presentato lei a Epstein.

Insomma, ci si aspettava dichiarazioni esplosive e, invece, Maxwell, che aspira alla grazia, sta lisciando il pelo ai potenti coinvolti nel caso, che ora tirano un sospiro di sollievo. Ma il vero nodo esplosivo non riguarda i rapporti con l’ex presidente, bensì le dichiarazioni di Maxwell sulla morte del finanziere pedofilo.

«Epstein non si è suicidato»

Ghislaine Maxwell ha detto chiaramente di non credere che Epstein si sia tolto la vita (“Non credo che si sia suicidato, no”) e ha suggerito che possa essere stato un attacco non collegato alla sua vicenda.

Una frase che rievoca, come un’eco insistente, ciò che milioni di persone sospettano dal 10 agosto 2019, quando il finanziere fu trovato impiccato nella sua cella al Metropolitan Correctional Center di New York. La versione ufficiale parla di suicidio, ma Maxwell ha ipotizzato che la sua morte possa essere legata a dinamiche carcerarie, dove – parole sue – «bastano 25 dollari in beni di mensa per pagare un detenuto e toglierti di mezzo». Le sue dichiarazioni riaprono una ferita mai cicatrizzata: quella delle incongruenze macroscopiche che circondano il decesso di Epstein. Il primo a suggerire che si fosse trattato di un omicidio fu proprio Donald Trump, che su Twitter rilanciò alcune teorie del complotto, puntando addirittura il dito contro i Clinton.

Un decesso pieno di incongruenze

Il caso Epstein è un manuale vivente di omissioni, errori “tecnici” e circostanze inspiegabili. La sequenza di anomalie non è casualità, ma somiglia piuttosto a un mosaico costruito per impedire di arrivare alla verità. Poche settimane prima di morire, come riportato dal Daily Mail, Epstein aveva confidato alle guardie del carcere che qualcuno voleva ucciderlo. La stessa fonte aveva incontrato il milionario in varie occasioni durante la sua detenzione al Metropolitan Correctional Center, affermando che Epstein, normalmente riservato, sembrava di buonumore: “Non c’erano segnali che potesse tentare il suicidio”.

Il 23 luglio, esattamente tre settimane prima della sua morte, Epstein fu trovato privo di sensi nella sua cella con lesioni al collo. Il finanziere sostenne di essere stato aggredito da un suo compagno di cella, l’ex poliziotto Nick Tartaglione, 52 anni. Tartaglione, accusato di aver ucciso quattro uomini, ha negato tale accusa. L’episodio aveva giustificato l’inserimento in un protocollo anti-suicidio, poi revocato inspiegabilmente il 29 luglio, solo 12 giorni prima della morte. La sorveglianza prevista ogni 30 minuti da parte delle guardie non venne rispettata: la notte tra il 9 e il 10 agosto, i controlli non sono stati effettuati per quasi nove ore. Come se non bastasse, le telecamere di sorveglianza poste all’esterno della cella risultavano malfunzionanti. I video? Danneggiati o cancellati “per errore tecnico”.

Il compagno di cella di Epstein fu trasferito poche ore prima della morte, nonostante le norme prevedano la presenza obbligatoria di un secondo detenuto. Secondo quanto emerso da fonti citate dal Washington Post, sarebbero stati almeno otto i membri del personale del Federal Bureau of Prisons che hanno ignorato l’ordine di non lasciare il miliardario da solo nella sua cella. In parallelo, due guardie sono state successivamente accusate di falsificazione di documenti, mentre oltre 20 membri del personale carcerario sono stati oggetto di mandati di comparizione. La direttrice del carcere, Shirley Skipper-Scott, è stata trasferita.

L’autopsia ufficiale, firmata da Barbara Sampson, ha confermato la morte per impiccagione. Ma un’analisi indipendente condotta dal patologo forense Michael Baden – già coinvolto in casi di rilevanza nazionale come quello di O.J. Simpson – ha evidenziato lesioni altamente atipiche per un suicidio:

  • Tre fratture nella cartilagine tiroidea e nell’osso ioide – lesioni raramente riscontrate in impiccagioni volontarie, ma compatibili con strangolamento.
  • Contusioni, ematoni e ferite su polsi, spalla, labbro e braccio, non spiegate né documentate nel rapporto ufficiale.
  • Presenza di capillari esplosi sul viso e sugli occhi, ulteriore segnale di strangolamento manuale secondo Baden.

Insomma, secondo il celebre patologo forense le lesioni sul corpo di Epstein – in particolare le tre fratture al collo rarissime per un’impiccagione – non sarebbero compatibili con un suicidio: “Le prove indicano un omicidio piuttosto che un suicidio”, ha sottolineato Baden in un’intervista a Fox & Friend.

A tutto questo si aggiunge un altro dato inquietante: non esiste alcuna immagine del cadavere di Epstein all’interno della cella, come ha confermato la stessa trasmissione d’inchiesta 60 Minutes, che ha dedicato un’intera puntata alla vicenda su CBS.

La questione della “lista clienti”

Maxwell ha negato l’esistenza di una “lista clienti” di Epstein. «Non ho mai visto, una sola casa che avesse alcun tipo di videosorveglianza inappropriata», ha detto la donna citando le case di Epstein a New York, nei Caraibi, nel New Mexico e a Parigi. Eppure, questa affermazione contrasta con decine di elementi emersi nel tempo: i registri di volo del “Lolita Express”, le testimonianze giurate delle vittime, i materiali informatici sequestrati nelle residenze del finanziere. Documenti che parlano di politici, reali, banchieri, imprenditori e celebrità coinvolti in festini con minori.

Dire oggi che “non esistono prove” significa ridurre un intero sistema di ricatto e abusi a un incidente isolato, negando ciò che decine di testimonianze e prove documentali hanno già mostrato. È come cancellare la parte più esplosiva del caso: se non c’è lista, non ci sono complici. Se non ci sono complici, non c’è rete. Se non c’è rete, Epstein diventa un mostro solitario, e non il tassello di un ingranaggio internazionale di potere e controllo.

Il filo che lega la morte misteriosa di Epstein alla negazione della lista clienti disegna lo schema classico di un insabbiamento istituzionale. Non è solo una questione di giustizia, ma di geopolitica. Epstein e Maxwell non erano figure isolate: i legami con la CIA, il Mossad e la storia oscura del padre di Ghislaine, Robert Maxwell – sospettato di essere un “super-agente” israeliano – gettano una luce inquietante. Secondo l’ex agente del Mossad Ari-Ben-Menashe, la coppia avrebbe reclutato minorenni per ricattare politici e potenti di tutto il mondo, su mandato dei servizi segreti israeliani.

Che si tratti di omicidio, suicidio o depistaggio, la domanda resta la stessa: perché ogni volta che si sfiora la verità, il caso Epstein si trasforma in un labirinto di omissioni e bugie? E soprattutto: a chi giova questo silenzio?

«Per il bene dell’umanità, fateci entrare nella Striscia».
Con queste parole, il responsabile umanitario delle Nazioni Unite Tom Fletcher ha lanciato oggi un appello disperato alle autorità israeliane, chiedendo la fine del blocco sugli aiuti e l’accesso immediato a cibo e medicinali. Troppo tardi per troppi, ma non per tutti: così Fletcher ha descritto la catastrofe in corso, mentre l’ONU ha dichiarato ufficialmente lo stato di carestia a Gaza.

La carestia conclamata

Secondo la Classificazione Integrata della Sicurezza Alimentare (IPC), organismo sostenuto dalle stesse Nazioni Unite, circa 514.000 palestinesi – un quarto della popolazione della Striscia – sono vittime di malnutrizione grave. A Gaza City, la regione settentrionale è stata dichiarata in piena carestia: oltre 280.000 persone sopravvivono tra fame, malattie e mancanza di acqua potabile.

Perché un’area venga classificata in carestia devono verificarsi criteri precisi: almeno il 20% della popolazione colpita da carenze alimentari estreme, un bambino su tre affetto da malnutrizione acuta e un tasso di mortalità che supera le due persone al giorno su 10.000 abitanti. Tutti indicatori ormai superati nella Striscia. È la prima volta che l’IPC conferma una carestia in Medio Oriente.

Il rapporto dell’IPC parla chiaro: dopo 22 mesi di guerra, mezzo milione di persone vive condizioni catastrofiche, con livelli di malnutrizione infantile mai registrati prima in Medio Oriente. Entro il 2026, si stima che 132.000 bambini sotto i cinque anni soffriranno di denutrizione acuta, con 41.000 piccoli già oggi in pericolo di morte imminente.

La fame a Gaza è “apertamente promossa da alcuni leader israeliani come arma di guerra“, ha detto il responsabile umanitario delle Nazioni Unite, Tom Fletcher. “È una carestia che ci perseguiterà tutti” ha aggiunto, invitando il premier israeliano Benjamin Netanyahu a un “cessate il fuoco immediato” e chiedendo che vengano aperti i valichi per far entrare gli aiuti umanitari.

Fame come “arma di guerra”

La carestia non è una calamità naturale: è il prodotto diretto di bombardamenti, blocco degli aiuti e distruzione delle infrastrutture. Campi devastati, sistemi idrici collassati, ospedali distrutti: Gaza è ridotta a una terra senza vita.
Eppure, Israele respinge le accuse. Il COGAT, organismo militare che coordina le attività nei Territori, ha definito il rapporto dell’IPC «falso» e «basato su dati parziali forniti da Hamas». Una versione che stride con le stesse ammissioni interne: secondo quanto rivelato da Local Call, anche l’esercito israeliano considera attendibili i bilanci del Ministero della Salute di Gaza, mentre i leader politici li bollano come propaganda.

La verità scomoda sui civili uccisi

Alla tragedia della fame si aggiunge un’inchiesta internazionale che getta nuova luce sul bilancio delle vittime. Un database riservato dell’intelligence israeliana, ottenuto da The Guardian, +972 Magazine e Local Call, mostra che cinque palestinesi su sei uccisi a Gaza erano civili.

I numeri sono drammatici: a maggio, secondo il Ministero della Salute di Gaza, 53.000 palestinesi erano già morti sotto le bombe. Di questi, soltanto 8.900 erano militanti di Hamas o della Jihad islamica. Ciò significa che l’83% delle vittime è costituito da civili, una percentuale che supera perfino i conflitti più sanguinosi di Siria o Sudan.

Una realtà difficilmente negabile, al punto che l’esercito israeliano non ha smentito l’esistenza del database. Ufficialmente, però, continua a contestarne i contenuti. Intanto, sotto le macerie, restano migliaia di corpi non conteggiati.

Una catastrofe senza precedenti

La carestia a Gaza segna una tragica prima volta: mai prima d’ora il Medio Oriente era stato ufficialmente dichiarato in carestia dall’ONU. Somalia, Sud Sudan, Darfur: scenari già conosciuti, ma lontani. Oggi la catastrofe si consuma a poche ore di volo dall’Europa, in un territorio assediato e controllato militarmente. L’ONU avverte che entro poche settimane la fame estrema potrebbe estendersi verso sud, da Gaza City fino a Deir al-Balah e Khan Younis. Una spirale di morte che rischia di diventare irreversibile.

Le parole di Fletcher risuonano come un atto di accusa alla comunità internazionale: «È troppo tardi per troppi». Gaza muore di fame e di guerra, e il silenzio o la negazione della realtà rischiano di trasformare una crisi umanitaria in un genocidio dimenticato.

Il World Economic Forum ha voltato pagina. Dopo le dimissioni di Klaus Schwab, travolto da scandali e inchieste, l’organizzazione con sede a Cologny, presso il Lago di Ginevra, ha annunciato i suoi nuovi leader: Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, e André Hoffmann, erede della dinastia farmaceutica Roche. Due figure che rappresentano, meglio di qualsiasi discorso, l’essenza del Forum di Davos: l’alleanza tra finanza globale e Big Pharma, cuore pulsante del progetto di governance tecnocratica che il WEF porta avanti da oltre cinquant’anni. «Siamo onorati di assumere questo ruolo di leadership ad interim in un momento cruciale per il World Economic Forum. […] Il mondo è più frammentato e complesso che mai, ma la necessità di una piattaforma che riunisca imprese, governi e società civile non è mai stata così forte», si legge nel comunicato stampa firmato dai due copresidenti ad interim.

Schwab, per decenni burattinaio delle élite, aveva costruito attorno a Davos il mito del “luogo del dialogo globale”. In realtà, documenti interni e rivelazioni giornalistiche hanno svelato come i rapporti ufficiali del WEF venissero manipolati per piegare le narrative geopolitiche: penalizzare la Brexit, proteggere l’India, consolidare la visione tecnocratica del Great Reset.

Le dimissioni di Schwab, arrivate in fretta e furia dopo accuse di irregolarità finanziarie, spese opache e un ambiente lavorativo tossico, hanno aperto un vuoto di potere subito riempito da due nuovi frontman. Ma il segnale è chiaro: il WEF non si ferma. Anzi, sceglie di mostrarsi per quello che è sempre stato: un centro di potere globale al servizio dei grandi capitali.

L’elezione di Larry Fink equivale a un’ammissione pubblica: la finanza internazionale guida ormai apertamente il WEF. BlackRock, con i suoi oltre 12.500 miliardi di dollari di asset gestiti nel secondo trimestre del 2025, è considerata da molti un governo invisibile, capace di condizionare Stati sovrani, orientare le scelte energetiche, comprare debito pubblico e influenzare i mercati attraverso partecipazioni nelle più grandi corporation e nei principali istituti bancari.

In Italia, il colosso statunitense gestisce circa cento miliardi di euro ed è azionista di peso in banche e aziende strategiche: da Intesa Sanpaolo a Eni, da Mediaset a Unicredit, fino ad Atlantia. Un potere che si traduce nella capacità di incidere sulle politiche economiche nazionali al pari – se non di più – dei governi.

Accanto a Fink siede André Hoffmann, vicepresidente del colosso farmaceutico Roche. La sua nomina non è casuale: conferma il ruolo centrale del settore farmaceutico all’interno dell’agenda del WEF. Dopo la pandemia, Big Pharma ha assunto un potere senza precedenti, dettando tempi e modalità delle politiche sanitarie mondiali. Ora quel potere si formalizza nella governance di Davos.

La retorica ufficiale parla di “cooperazione pubblico-privata”. In realtà, il WEF si pone come laboratorio di una nuova forma di governo planetario che supera e svuota gli Stati nazionali. Già nel 2022, il Forum aveva dichiarato che “i governi non sono più adatti al loro scopo”: da qui la spinta verso una governance in cui a decidere sono corporation, fondi d’investimento, organismi sovranazionali e reti di capitale privato.

Il fatto che Schwab sia stato costretto a farsi da parte, schiacciato sotto il peso degli scandali, non significa che l’era del Great Reset sia finita. Al contrario: potrebbe solo aver trovato nuovi interpreti, nuovi frontman altrettanto autorevoli, se non di più.

Il Great Reset, lanciato nel 2020 dal Grande Vecchio, non è stato archiviato con le sue dimissioni. È semmai entrato in una fase più matura, guidata da uomini che incarnano direttamente il potere economico che lo sostiene. Resta da capire quale sarà la futura sede del Forum: la Svizzera rischia di perdere un pezzo fondamentale del suo soft power, mentre si fanno avanti Paesi come gli Emirati Arabi, pronti a offrire incentivi. Ma, a prescindere dalla geografia, il disegno resta intatto: consolidare un ordine tecnocratico globale in cui il capitale decide, e i popoli eseguono.

Con il Grande Reset, ci troviamo dinanzi a un progetto che aspira a traghettare la popolazione globale verso una “rinascita”, attraverso l’istituzione di un “nuovo ordinetecnologico, automatizzato, “green”, in cui nessuno avrà privacy né possederà nulla, ma sarà “felice” (citando Ida Auken). Uno scenario distopico che prevede la creazione di una “algocrazia” in cui ogni aspetto della nostra vita rischierà di essere predisposto, controllato, automatizzato e sorvegliato da un occhio ben più crudele e spietato di quello del Grande Fratello orwelliano.

Ma davvero si chiude qui un capitolo?

In realtà, il World Economic Forum è molto più di Schwab. È una rete globale di potere che intreccia multinazionali, banche centrali, governi, fondazioni, università e media. Il suo obiettivo? Riprogettare la governance mondiale, superando i modelli basati sulla piccola e media impresa nazionale. Una visione tecnocratica, pianificata, centralizzata che strizza l’occhio alla tesi del saggio commissionato dalla Trilaterale, La crisi della democrazia, e mira ad automatizzare la società e ad avviare quella quarta rivoluzione industriale tanto cara proprio a Schwab. Su questo il fondatore del WEF, è molto chiaro nel descrivere nel suo La quarta rivoluzione industriale uno stravolgimento globale della nostra società in una direzione post-umana che «combina diverse tecnologie, dando luogo a cambi di paradigma senza precedenti».

Con Fink e Hoffmann al comando, il WEF mostra il suo vero volto. Non più maschere filantrocapitaliste o il carisma del pifferaio di Davos. Ora è la finanza internazionale, affiancata dall’industria farmaceutica, a guidare apertamente l’agenda.

Nel grande teatro globale, i protagonisti cambiano. Schwab se ne va, ma il copione resta lo stesso. Anzi, è stato riscritto con ancora meno veli: il potere non ha più bisogno di nascondersi dietro le narrazioni.

Una indagine condotta pochi giorni dopo l’11 settembre, di cui oggi ricorre l’anniversario, aveva rilevato che nove americani su dieci dichiaravano di soffrire di sintomi da stress post-traumatico.

Il terrore generalizzato, indotto dagli attentati, produsse un’opportunità per il governo Bush che ne approfittò su diversi fronti: da un lato legittimare la Guerra al Terrore, cioè l’ennesima guerra “preventiva” che in un altro momento non sarebbe stata accettata dall’opinione pubblica, grazie a questo assicurarsi un’impresa volta al profitto e alla privatizzazione del governo  (il “capitalismo dei disastri”), dall’altra restringere la privacy introducendo il Patriot Act.

Come mostrava Naomi Klein in Shock Economy, quando un Paese è impantanato in una crisi economica e sociale, esistono squadre di “tecnici” (io li definirei sciacalli) che impongono le loro dottrine economiche sulla base di promesse sempre disattese.

Volutamente disattese.

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La dittatura del pensiero unico si riversa nel boicottaggio mediatico e nella persecuzione on line di alcuni pensatori qualora risultino scomodi.

Di certe tematiche non si deve parlare per non urtare alcune minoranze che sembrano aver preso in ostaggio il pensiero critico.

Chi si permette di farlo dovrebbe ritagliarsi una fascetta di tessuto, ricamarci l’iniziale di “E” di eretico, e cucirsela a bella vista sui vestiti. In fondo anche la stregoneria quando venne perseguitata era assimilata all’eresia.

 

Anche essere politicamente scorretti è una forma di eresia: significa rifiutarsi di conformarsi al pensiero unico, dissentire dall’Ortodossia di Stato, forgiarsi una propria opinione alternativa alla maggioranza e difenderla a rischio di, citando Ernst Jünger, “darsi al bosco”.

 

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Il pensiero unico su cui si deve assestare l’opinione pubblica è una forma di “politicamente corretto”, il più possibile allineato a quelli che sono gli obiettivi del potere.

Il totalitarismo democratico ha i suoi cani da guardia, i suoi psicopoliziotti, pronti a riportare all’ovile chiunque dissenta od osi manifestare pubblicamente dei dubbi.

Il dubbio non è consentito ed è pericoloso perché può “contagiare” il resto della popolazione, portando a un calo di consenso.

Il paradosso (potremmo parlare di vero e proprio bipensiero orwelliano) è che i mastini del pensiero unico, gli stessi che abbracciano la creazione di task force e che vorrebbero introdurre disegni di legge per censurare il web da fake news e teorie del complotto, sono i primi a perseguitare in modo violento, volgare e sguaiato i propri avversari, ricorrendo anche a falsità, strategie retoriche e a diffamazioni.
Oggi, purtroppo, il confronto è stato abolito per lasciare spazio al cyber bullismo. Si critica giustamente il bullismo quando nel mirino finiscono gli adolescenti o le minoranze, ma poi ipocritamente lo si usa come il braccio armato del potere per “mettere in riga” chi traligna dalla retta via.

Quando non si sa come attaccare il contenuto di certe ricerche si passa al bullismo vero e proprio con attacchi personali tanto vili quanto violenti o all’inserimento dei nomi dei ricercatori in liste di proscrizione.

Denigrando e perseguitando chi non si allinea al pensiero unico si spera di disincentivarlo dal continuare le proprie ricerche.


Sono metodi di bassa lega usati da tempo e che con l’avvento della tecnologia e dei social funzionano in modo più capillare.

Mettendo pubblicamente alla gogna i ricercatori “scomodi” si introduce di fatto uno psicoreato, un reato d’opinione di orwelliana memoria.

Si crea cioè un frame, una cornice negativa, con cui stigmatizzare un ricercatore e le sue teorie in modo che il biasimo collettivo lo preceda e lo segni inesorabilmente. Si diffonderanno articoli, commenti su forum per confermarne il frame e si modificheranno persino le voci su wikipedia per avvalorare la veridicità delle accuse anche qualora siano assurde.


Il bullismo del potere tramite i suoi cybermastini si sta scatenando in queste settimane con il ricorso al noto argumentum ad hominem: si tratta di una fallacia o tecnica fuorviante che serve per screditare un argomento scomodo spostando l’attenzione dall’argomento della polemica, contestando non l’affermazione in oggetto, ma l’interlocutore stesso.


Invece di confutare l’argomentazione che si vuole negare, si attacca così la fonte o la persona che la sostiene. Si sposta pertanto l’attenziona dalla tematica alla persona che ne parla e la divulga.

Le argomentazioni ad hominem sono manovre diversive che servono a distogliere l’attenzione dall’argomentazione centrale per spostarla e focalizzarla su temi collaterali o estranei alla discussione:

invece di controbattere gli argomenti dell’interlocutore lo si attacca screditandolo, minacciandolo o deridendolo.

Ultimamente si usano le solite etichette per denigrare i pensatori alternativi: si crea un frame, un fermo immagine, per inserire colui che si vuole attaccare in questa cornice, magari dicendo che è un complottista o un ciarlatano.
Si crea cioè una cornice, per esempio quella del “complottista”: tutto quello che vi viene fatto rientrare, vi appartenga o meno non importa, sarà visto dall’opinione pubblica come qualcosa da cui stare alla larga.

Così chi viene incasellato, etichettato, in questa determinata categoria verrà considerato a priori un paranoico cospirazionista e qualunque cosa dica verrà percepito e liquidato come farneticazione.
Il fatto che esistano evidenti eccessi nel campo della controinformazione non significa che tutti i ricercatori debbano essere additati e ridicolizzati come webeti e come degli squilibrati.

La propaganda vuole invece rassicurare l’opinione pubblica del fatto che non sono mai esistiti e non esistono trame occulte né complotti (facilmente smentibile a livello storico) e che chi diffida della ricostruzione ufficiale di alcuni eventi allora sarà un cretino che crede ai rettiliani o alla teoria della terra piatta, e via discorrendo.

Si tratta ovviamente di una tecnica per liquidare e denigrare chi si pone in modo alternativo rispetto alla propaganda e al pensiero unico, in modo da spingerlo a vergognarsi addirittura di aver osato pensare “male”, di essersi cioè macchiato di psicoreato.